“Viva l’Italia, l’Italia liberata.”
È l’incipit di una canzone sopravvissuta alle mode da classifica, a cui sono affezionato per questioni generazionali. Ma è buono anche come incipit ai pensieri che provo a mettere in fila, lungo queste righe.
Quest’anno la Festa della Liberazione e quella del Primo maggio si fondono in un’interessante combinazione che, per i più fortunati, significa la liberazione dal tempo lavorativo, da trascorrere percorrendo un ponte lungo una settimana. Probabilmente, di questi tempi, è la prima liberazione che ci viene in mente.
Va tutto bene, a patto che ci sia quel minuto di silenzioso rispetto per chi questo ponte l’ha edificato con il proprio vissuto o, addirittura, con la propria vita. Che a lui dobbiamo quell’Italia liberata dall’occupazione tedesca e da un ventennio fascista che aveva imprigionato le istituzioni.
Ora che da quello siamo liberi, però, cerchiamo di non renderci prigionieri di noi stessi: delle nostre paure e delle nostre frustrazioni. Dopo aver conservato quelli fisici, cerchiamo di non farci intrappolare dai confini mentali: liberiamoci dall’individualismo e recuperiamo il valore di quell’unità nazionale – non nazionalista – così ben espresso nel ricordo di queste due feste che s’accavallano.
Festeggiamo la liberazione dal rancore personale e dall’individualismo, anche se è già più difficile festeggiare un lavoro che non c’è più, almeno per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi cinquant’anni.
Festeggiamo la voglia di affrontare insieme questi tempi di crisi, così come i nostri vecchi affrontarono insieme un dopoguerra che noi ricordiamo solo in bianco e nero. Far festa da soli non è festa vera: il futuro dell’Italia che verrà lo possiamo solo costruire facendo uno sforzo comune, affinché tra altri cinquant’anni ci siano sempre cose da festeggiare in un’Italia nuova, figlia di un’”Italia che non ha paura”.
Giusto per chiudere con la stessa canzone.
(intervento apparso su Il Biellese di martedì 24 aprile 2018)