Tempi duri, questi.
Tempi in cui dobbiamo aver paura anche di noi stessi. È la paura della paura, ciò da cui dobbiamo difenderci.
Mi riferisco ai fatti di Torino, che han visto protagonisti anche numerosi biellesi con voglia di festa e precipitati dentro a un incubo.
Nell’ultimo Consiglio regionale abbiamo verificato la buona risposta all’emergenza da parte del servizio sanitario regionale e discusso sulle modalità dell’accaduto. Aldilà delle responsabilità che saranno eventualmente verificate dalla magistratura e da qualche commissione d’inchiesta, la riflessione è su cosa sia realmente accaduto dentro di noi, protagonisti e spettatori, se riusciamo a spaventarci del nulla.
L’Italia è tra i Paesi europei meno toccati – per ora – direttamente dal terrorismo corrente, eppure questo è un panico che non conosciamo e non abbiamo conosciuto nemmeno quando il terrorismo, di destra e di sinistra, politico o deviato, ce lo fabbricavamo in casa. Il vice-questore Cusano fu assassinato in centro città e l’aria era sì pesante e aleggiava una sottile paura, non panico.
Non che non esistano precedenti “illustri”: una sera di fine maggio del 1985, allo stadio belga dell’Heysel morirono di panico 39 persone in attesa di una finale di Coppa Campioni e quando il 21 giugno successivo decine di migliaia di fan si mettono in coda, sottoscritto compreso, per il primo concerto italiano di Bruce Springsteen il timore è palpabile, lo sguardo attento a ogni ondeggiamento della folla.
Da allora nuova misure di sicurezza e prevenzione vennero introdotte negli stadi e in occasione di grandi eventi. Ma quel panico inconscio svanì in fretta. Riaffiorò nel 2010, in occasione della Love Parade, grande raduno europeo di musica techno, a Duisburg, in Germania. Lì furono 21 i ragazzi che non tornarono più a casa, soffocati da una folla impazzita e mal gestita attraverso un improbabile tunnel di sfollamento. E in mezzo ci stavano le notti bianche olimpiche di una Torino che si scopriva a vocazione turistica: centinaia di migliaia di persone nelle vie e nelle piazze cittadine, senza incidenti.
Questo per dire che Torino è capoluogo avvezzo a questo genere di manifestazioni, a differenza delle città di provincia come la nostra che muovono numeri di gran lunga più piccini e quindi soffrono di minori rischi (e la tappa del Giro d’Italia con il suo afflusso di oltre centomila persone è stata ottimamente gestita). Ma, questa volta, qualcosa non ha funzionato. Certamente la logistica e la sicurezza hanno sofferto diverse pecche, ma è il panico legato a un petardo, a un urlo o a un movimento mal interpretato ad aver causato il disastro. Un disastro che ci portiamo appresso chiuso tra le nostre paure, che media e social impazziti non perdono l’occasione di fomentare.
La nostra paura è la vittoria di chi genera il terrore. La paura della paura è un effetto collaterale che non ci possiamo, e non dobbiamo, permetterci. E con il quale dobbiamo anche imparare a convivere.