Dire o non dire, in un momento in cui tutti dicono. Mentre tutto si dice e nulla si capisce, nella confusione dell’incomprensibilità.
Ci sono foto di bambini morti e parole pesanti che fanno male agli occhi quando spuntano dai titoli di giornale. E non può essere solo sgomento e nemmeno solo indignazione. Ché ci sono guerre in giro per il mondo, ogni santo giorno per noi e maledetto giorno per chi le vive. Ma l’abitudine a guardare altrove si confonde spesso con la necessità di sopravvivere a qualsiasi orrore.
La quotidianità della guerra comporta vittime, in un contesto in cui tutti sono carnefici e il torto e la ragione a volte si confondono. E le vittime comportano bambini interrotti, fatti a pezzi nel corpo e nell’anima, oppure lasciati integri a rappresentare l’orrore di un’arma chimica. È nostra abitudine far finta che tutto questo non esista a far parte del nostro quotidiano, ma non può essere l’unica logica emotiva che colpisce al cuore quando la verità si palesa dalle pagine di un giornale, come un cucciolo maltrattato in un link condiviso.
So che abbiamo, e che ho, una normalità da rincorrere. E lo faccio pensando che tanto il peggio ancora ha da venire, proprio quando invece il peggio è adesso. A queste cose però non so più come reagire, quale ragione dare se non quella del dolore che si manifesta quando io ho altro da fare.
Vorrei pensarci sempre, ma non ci riesco.
Vorrei che l’uomo fosse un’altra cosa, ma non ci riesce.